2. La collezione egizia
La collezione egizia di Bergamo è frutto di raccolte selettive e casuali avvenute nel corso del XIX secolo dietro la spinta di una pratica assai diffusa in Europa e della passione per le antichità egiziane sviluppatasi in seguito alla spedizione napoleonica in Egitto.
Il console d’Italia ad Alessandria d’Egitto, Giovanni Venanzi, nel 1885 donò alla città di Bergamo una mummia e il suo sarcofago provenienti da Luxor, l’antica Tebe. Nella lettera accompagnatoria il console dichiara che la mummia era originariamente racchiusa in due sarcofagi uno dentro l’altro, come era usanza presso gli Egizi; della cassa più grande tuttavia non vi è più traccia.
Il nome del defunto, ripetuto per cinque volte sulla cassa, è Ankhekhonsu, che significa “è vivo il dio Khonsu”. Tale nome e il suo incarico di sacerdote scriba del granaio destinato alle offerte del dio Amon confermano la sua appartenenza all’ambiente tebano.
Il sarcofago, databile alla XXII Dinastia (900- 800 a.C.), è di forma antropoide ed è costituito da una cassa con coperchio in legno di cedro dipinto: sul fondo di colore giallo spiccano scene religiose in rosso, blu, verde e nero intervallate da iscrizioni in geroglifico. Il coperchio reca in rilievo le fattezze del volto del defunto, che indossa una parrucca tripartita, una barba posticcia rituale, una stola rossa e un ampio collare che copre il petto e le braccia. Le mani, incrociate sul petto, stringono due rotoli di papiro. All’interno, poggiato direttamente sulla mummia, vi era un secondo coperchio, decorato come quello esterno.
Le radiografie effettuate sulla mummia hanno rivelato che fu sbendata in antico, probabilmente per depredarla degli ornamenti, interrompendo il processo di mummificazione, e poi frettolosamente ricomposta, tanto che lo scheletro attualmente non conserva la corretta connessione anatomica.
La collezione egizia del Museo Archeologico comprende anche diversi piccoli oggetti dalla provenienza sconosciuta: bronzetti, amuleti ma soprattutto ushabti, piccole statuette mummiformi in terracotta o faience, raffigurate con zappa e marra in mano e un sacchetto di semi sulla spalla. Per gli antichi egiziani la morte era una condizione simile alla vita ma che durava in eterno, per cui si doveva cercare di limitare la fatica e i compiti gravosi nell’aldilà: proprio a questo servivano gli ushabti, che venivano deposti nelle tombe con il preciso compito di rianimarsi alla lettura della formula tratta dal Libro dei Morti scritta sul loro corpo e svolgere i lavori agricoli al posto del defunto.
La maggior parte dei 22 ushabti del Museo si data tra la XXVII e la XXX dinastia, ovvero tra la fine del VI e la metà del IV secolo a.C.